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lunes, 19 de agosto de 2013

Poesia che mi guardi - Marina Spada (2009)


TITULO ORIGINAL Poesia che mi guardi
AÑO 2009
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 57 min
DIRECCION Marina Spada
GUION Marina Spada, Simona Confalonieri, Marella Pessina
PRODUCCION Renata Tardani
FOTOGRAFIA Sabina Bologna
MONTAJE Carlotta Cristiani
MUSICA Tommaso Leddi
ESCENOGRAFIA Fabrizio Longo
VESTUARIO Marella Berzini
GENERO Documental / Ficción / Drama
INTERPRETES Y PERSONAJES 
Elena Ghiaurov Maria
Marco Colombo Bolla Stefano
Enrica Chiurazzi Manuela
Carlo Bassetti Nicola

SINOPSIS Lo sguardo umbratile e moderno dell’autrice di Come l’ombra si ferma oggi sulla giovinezza della poetessa e fotografa Antonia Pozzi, che si lasciò morire il 3 dicembre del 1938, all’indomani delle leggi razziali in una Milano nevosa e gelida. La sua memoria perduta rivive oggi grazie ai poeti di strada che credono alla forza di un verso, di un pensiero capaci di segnare il mondo.

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PREGHIERA ALLA POESIA

Oh, tu bene mi pesi
l’anima, poesia:
tu sai se io manco e mi perdo,
tu che allora ti neghi
e taci.

Poesia, mi confesso con te
che sei la mia voce profonda:
tu lo sai,
tu lo sai che ho tradito,
ho camminato sul prato d’oro
che fu mio cuore,
ho rotto l’erba,
rovinato la terra –
poesia – quella terra
dove tu mi dicesti il più dolce
di tutti i tuoi canti,
dove un mattino per la prima volta
vidi volar nel sereno l’allodola
e con gli occhi cercai di salire –
Poesia, poesia che rimani
il mio profondo rimorso,
oh aiutami tu a ritrovare
il mio alto paese abbandonato –
Poesia che ti doni soltanto
a chi con occhi di pianto
si cerca –
oh rifammi degna di te,
poesia che mi guardi.

"Guardami, sono nuda"

Per troppa vita che ho nel sangue
Tremo nel vasto inverno
Antonia Pozzi
  
Esistono opere preziose che rimangono celate per anni, chiuse a chiave in scrigni apparentemente inaccessibili. È stato così, per lungo tempo, anche per l’opera poetica di Antonia Pozzi: un verso rapsodico, implacabile e dolente, capace di scavare nella fragilità dell’animo umano facendo leva e allo stesso tempo combattendo la propria femminilità. Un gesto poetico che è anche, forse prima ancora, urlo lacerante che sa, nel momento stesso in cui viene posto sul foglio bianco, di non poter essere davvero compreso in pieno. La vita triste e breve della Pozzi, morta suicida ad appena ventisei anni nel 1938, è però solo uno dei binari su cui si muove Poesia che mi guardi, ritorno alla regia della cinquantaduenne cineasta meneghina Marina Spada dopo l’ottimo Come l’ombra. Al di là della già citata poetessa, difatti, vengono alla luce non pochi protagonisti nei cinquanta minuti in cui si dipana questa bizzarra opera cinematografica; il primo e forse più importante di questi è ancora una volta la città di Milano. Era stato già così in Come l’ombra, anche se in questo caso la videocamera della Spada si interessa alle zone centrali, quelle aree benestanti in cui la Pozzi crebbe nella bambagia, “protetta” dalle lordure di una società industriale e fascista la cui ombra continua comunque a essere ben più che ectoplasmatica.
Non è un documentario, Poesia che mi guardi, per quanto in ben più di un’occasione il tarlo del dubbio si faccia largo nella mente dello spettatore. Eppure allo stesso tempo non è possibile neanche considerarlo un film di finzione, nonostante la presenza di un vero e proprio cast impegnato a “interpretare” tanto la poesia della Pozzi quanto il senso del suo essere al mondo, e forse il senso stesso dell’agire poetico e artistico. Non si tratta di un film-saggio, nè può essere annoverato in un ipotetico archivio del cinema sperimentale; non è un cortometraggio, ma non si inerpica fino al minutaggio standard di un film sulla lunga distanza. Cosa sia, in effetti, Poesia che mi guardi, è un dilemma decisamente di non facile soluzione, rompicapo sul quale vale comunque la pena arrovellarsi. L’impressione è che la Spada, ispirata cineasta al di fuori di qualsivoglia schema precostituito, abbia messo in scena un perfetto esempio di film poetico: il suo sguardo da principio si lascia guidare dalle parole della Pozzi, evocate in scena dalla voce di Elena Ghiaurov (attrice teatrale che si presta a un continuo vis à vis con la videocamera), ma poco per volta sembra sciogliersi letteralmente da nodi immaginari e invisibili per muoversi di propria spontanea volontà. Ecco dunque che Poesia che mi guardi si trasforma, nell’arco di appena cinquanta minuti, da “semplice” resoconto documentario della vita di un’artista a vero e proprio inno alla poesia come atto rivoluzionario. La Milano bene potrà anche apparire monolitica, perfino immobile nella sua struttura architettonica quasi secolare, ma in realtà al suo interno si agita un corpo in continua evoluzione, un intero mondo che ha solo voglia e bisogno di esprimersi, come gli H5N1, terzetto di poeti di strada di Pavia che presta corpo e anima al video. Una rabbia pre-punk, quella di Antonia Pozzi, inadatta al suo tempo e forse troppo difficile da comprendere anche oggi, e che Marina Spada omaggia con una messa in scena che mescola realtà e finzione, filmato d’archivio e istantanea sull’oggi, in una sovrapposizione di elementi antitetici che opera per continuo contrasto, alla ricerca di un’armonia meno facile, ma senza alcun dubbio più profonda. 
Così facendo, tra un distico e una riflessione sulla necessità dell’espressione personale, si articola un percorso ondivago che sembra apparentemente voler solo abbandonare lo spettatore in mare aperto, alla mercé dei venti: ma è solo un modo (o meglio: è il solo modo) per costringerlo a dominare lui stesso la rotta, in una lezione di libertà che la Pozzi non avrebbe potuto far altro che applaudire. Ed è anche per questo che dopo cinquanta minuti ci si accorge di aver scoperto la vita di una donna che fu poetessa e di una poetessa che volle disperatamente urlare al mondo il suo essere donna; e ci si accorge di aver scoperto un pezzo della storia d’Italia, tra lezioni di estetica di Antonio Banfi, scambi di lettere con Lucia Bozzi ed Elvira Gandini, e l’inesorabile avanzare verso le leggi razziali del 1938 e la Seconda Guerra Mondiale. Una guerra che Antonia Pozzi non vide mai, scegliendosi la morte il 3 dicembre del 1938, a ventisei anni.
Poesia che mi guardi è un’opera etica, poetica ed estetica. Non si corra il rischio di lasciarla chiusa in uno scrigno prezioso.
Raffaele Meale

Il 13 Febbraio si è celebrato il centesimo anniversario della nascita di Antonia Pozzi, poetessa milanese morta suicida a soli ventisei anni.

Figlia di una famiglia facoltosa - il padre era un avvocato di prestigio, la madre una contessa -, Antonia si accosta alla poesia fin dall'adolescenza. Dopo gli studi classici al liceo Manzoni, si iscrive alla facoltà di Filologia della Statale di Milano. Gli anni universitari saranno caratterizzati da intense e fraterne amicizie, fra cui quella con il coetaneo Vittorio Sereni, ma anche da una profonda depressione iniziata fin dai tempi del liceo a causa della relazione con il professore di latino e greco Antonio Maria Cervi, di cui Antonia era profondamente innamorata ma che la famiglia osteggiò pesantemente fino a provocare l'allontanamento dei due. Anima appassionata e fragile, Antonia Pozzi restò sempre estremamente vulnerabile sul piano affettivo e sentimentale, riversando i proprio turbamenti nelle poesie di cui riempiva interi quaderni.
Innamorata della natura, che rappresenta per lei un vero e proprio rifugio interiore e che compare come una sorta di costante nelle sue opere, Antonia vive con disagio la situazione politica e sociale del suo tempo, il cui clima sempre più cupo sembra influenzare progressivamente anche il suo stato d'animo e il suo sguardo sulla vita.
Il 15 settembre 1937, pochi mesi prima del suicidio, scrive all'amica Elvira Gandini:
Perché e così:prima si sbaglia, ci si perde, ci si arrampica per astratte impalcature intellettuali, finché la vita un bel giorno comincia, coi suoi gesti leggeri e sapienti, a richiamarci a lei:è come aprire gli occhi ad un tratto e ritrovarsi su una striscia di prato al sole, vicino alle pietre e alle piante. Il senso della vita non è più sparso, nel cervello, nelle mani, negli occhi, ma è tutto raccolto nel centro del petto, come un enorme fiore o come una corazza: e il domani non è più che portare sempre più in avanti quel fiore, sereni, eretti, per una grande strada bianca.
Ed è proprio nelle sue stesse parole, in quella vulnerabile corazza che Antonia descrive e con la quale sembra cercare invano di proteggersi, che forse si può scorgere l'anticipazione di quella "disperazione mortale" di cui parlerà nel suo biglietto d'addio, quando il 3 dicembre del 1938 sceglierà di darsi la morte con un flacone di barbiturici.
Il padre tenterà a lungo di coprire lo scandalo del suicidio, attribuendo la sua scomparsa a una polmonite ed evitando di far trapelare per molto tempo le sue opere, oggi quase tutte edite.
Alla figura delicata e fragile di Antonia Pozzi, capace di versi intensi e ammalianti troppo presto dimenticati, è dedicato il film-documentario Poesia che mi guardi, della regista Marina Spada. Il documentario, prodotto da Miro Film  nel 2009, è stato presentato fuori concorso alla 66ma Mostra del Cinema di Venezia.
Impreziosito da immagini d'epoca di Antonia Pozzi, tratte dai filmati di famiglia, Poesia che mi guardi tratteggia un ritratto intimo ed intensissimo della poetessa, oltre ad un'accurata testimonianza sulla sua personalità e sulla sua opera. In questa intervista Marina Spada ci parla del progetto che ha realizzato attraverso la lavorazione del documentario e del suo sguardo sulla figura della Pozzi, accompagnando il proprio commosso omaggio alle numerose commemorazioni che nella ricorrenza della nascita le sono state tributate.
Rai Letteratura vi propone alcune delle sue poesie, per permettere a chi l'ha amata di ritrovarla nei suoi stessi versi, e a chi ancora non la conosce di scoprire una delle voci più intense e toccanti della poesia femminile contemporanea.


Antonia Pozzi nace un 13 de Febrero de 1912 en el seno de una familia acomodada, culta y refinada: su padre, Roberto Pozzi, renombrado abogado en Milán y su madre de origen nobiliario, la condesa Lina; hija del conde Antonio Cavagna Sangiuliani di Gualdana y de Maria Gramignola (dueños de amplias propiedades). Este contexto privado, rico en estímulos intelectuales, fermento de una cultura de ascendencia ilustrada-romántica, será clave en la formación de Antonia; con una madre educada en un buen colegio, el "Collegio Bianconi" de Monza, que domina bien varios idiomas (el francés y el inglés), con un vivo interés por la lectura (especialmente por los autores extranjeros), que sabe tocar el piano y se apasiona por la música clásica y las artes en general; con un abuelo materno cultísimo ("il nonno Antonio"), reconocido historiador (apreciado también por Pavese) y amante del arte en general, dotado de cualidades pictóricas propias y ducho en el dibujo y la técnica de la acuarela; con una abuela, "la nonna Maria"(nieta a su vez del famoso Tommaso Grossi) de aguda y gran sensibilidad con la que Antonia desde su infancia establecerá una estrecha relación de entrañable afecto y profunda complicidad vital; de ascendencia paterna, la abuela Rosa, dedicada al magisterio, al igual que la hija de ésta, su tía Ida (hermana del padre), también maestra, compañera en muchos de sus viajes ...cierran este círculo de claras influencias intelectuales que cimentarán un fértil sustrato de motivación cognitiva, avidez cultural y de educación y permeabilidad de la sensibilidad artística que delineará el perfil peculiar de nuestra autora.

Antonia empieza su primera experiencia escolar en 1917. Los documentos no certifican de una forma clara si estos primeros años transcurren en una escuela religiosa (posiblemente "la scuola delle Suore Marcelline") o bien viene preparada de forma privada.
Lo que sí es cierto, es que en 1922 no habiendo aún cumplido los 11 años, está matriculada en el instituto "Liceo-ginnasio Manzoni", donde obtendrá el título en 1930 para proseguir con sus estudios universitarios en la "Statale" de Milán.
Estos años de instituto marcarán para siempre la vida de Antonia en un triple aspecto: por una parte, se forjarán estrechas y profundas relaciones de amistad, en particular con Lucia Bozzi y Elvira Gandini (a las que considerará "hermanas elegidas") y por otra, descubrirá una doble pasión: la poesía; refugio íntimo y ejercicio estético al que se entregará con asiduidad, y el sentimiento del amor; en su doble vertiente de exaltación y dolor más profundo por su imposibilidad de cumplimiento.
En 1927, cursando el primer grado de Bachillerato, se sentirá fuertemente atraída por su profesor de latín y griego, Antonio Maria Cervi, de quien admira su hondo sentido ético, su cultura excepcional y su consagración plena a la enseñanza. La vinculación de intereses afines será cada vez más clara y manifiesta: el ansia de saber, el amor por el arte y la poesía, por la belleza en general que une a ambos, trocará en Antonia la admiración, por un sentimiento profundo de amor, de sesgo trágico, obstaculizado de forma explícita por su padre en 1933, que provocó la renuncia definitiva a esta "vita sognata" como después la escritora plasmaría en sus poesías homónimas donde la convergencia entre deseo y realidad quedará para siempre truncada y la poesía será entonces la única forma de vida posible.
Todo un bagaje de lecturas cimentan y respaldan su formación literaria: además de Rilke, Pound, Valéry y Eliot en lengua original y en traducciones, Antonia lee también a los maestros de la poesía italiana contemporánea: Ungaretti (L'Allegria sobre todo) por el dominio intelectual sobre la tendencia visionaria; Montale por el fuerte sentido ético de su existencialismo y también a Sinisgalli y Quasimodo. En cuanto a la narrativa, se apasiona por Flaubert, Kafka, Dostoievski, Mann y Joyce, interpretada en clave filosófica.
Según Mariano Roldán en su Traducción y Prólogo de Treinta Poemas sobre Antonia Pozzi, aduce que habría que encuadrar a la autora en una poesía de "tono virginal" de cariz extático, llena de premoniciones y esperas con una rapidez, patetismo, concisión y diarismo que lo evidencian, en la línea de una Emily Dickinson o una Katheleen Raine.
Históricamente, Antonia Pozzi forma parte conjuntamente con Gatto, Sinisgalli, Luzi, Parronchi y Sereni, de esa tercera generación de escritores del siglo XX (en correspondencia con la española de Hernández, Vivanco, Panero, Rosales o Muñoz Rojas) que Oreste Macri señala como continuadora de la constituida por Quasimodo, Betocchi y Montale (en coincidencia con la del 27 española) y sucesora a su vez de Rébora, Campana, Saba, Cardarelli y Ungaretti, cima de la lírica italiana de esta época; equivalente a Juan Ramón Jiménez en nuestra lírica.
Obras
Todas sus obras han sido publicadas de forma póstuma. Y la génesis de sus poesías ha sido reconstruida en las ediciones más recientes. Su itinerario poético desarrollado a modo de diario íntimo constituye un único "canzoniere", que condensa toda su poesía en un solo libro: Parole, publicado en 1939, un año después de su muerte, a cargo de la editorial Mondadori y con la introducción de Eugenio Montale que advierte precisamente al lector de hallarse frente a una poesía con conciencia de estilo y a la vez, profundamente íntima.
Pero en esta primera edición no está la versión auténtica de su creación, sino que ha sido objeto de la manipulación paterna, excluyéndose poemas, frases, incluso signos de puntuación con el fin de "limpiar" la obra según su criterio, de manera que habrá que esperar a la última edición de Garzanti en 2001 para recuperar la versión íntegra de la obra según fue escrita por la autora en su origen. Entre esta primera edición y la última se irán publicando estadios intermedios de su "canzoniere" con otros títulos y la inclusión cada vez de nuevas poesías inéditas.
El éxito editorial inmediato que obtuvo la publicación del libro contrasta con el desconocimiento de la autora en el panorama de la literatura italiana hasta un año después de su muerte. En menos de diez años desde esta fecha se hicieron tres ediciones sucesivas y dos versiones, al rumano y alemán; circunstancia de vida y obra que la acercan en este sentido a otro gran escritor, de época anterior como fue Bécquer.
Los lectores se sentirían en seguida cautivados por ese impresionismo diarístico, ese captar la sensación y transcribirla sustrayéndola al momento variable para fijarla en un horizonte de eternidad del que emana una autenticidad profunda; doble cualidad que ha sido destacada por toda la crítica en general.
Todas las poesías del libro, en realidad componen un único poema, que cifran su experiencia vital desde los 16 años hasta pocos meses antes de morir en 1938.
El esplendor lírico de este gran poema nos conmueve como un evento que por una parte, refleja la época que le tocó vivir: época de angustia vital y existencialismo filosófico entre las dos guerras mundiales y por otra, nos remite a algo más esencial, a una pregunta sin respuesta dirigida al centro mismo del ser humano.
El enigma o misterio que desprenden sus poemas bebe en la fuente directa del expresionismo alemán, con la creación de atmósferas desoladas e inquietantes envueltas en el alternarse de las estaciones, sombras, luces, reflejos, lluvias, nieblas, periferias, presencias, ausencias y silencio. Pero este ropaje se articula verdaderamente sobre el cañamazo de una filosofía de la experiencia y de la cultura, una filosofía racional que aglutina dos principios dialécticos irreconciliables pero presentes en Antonia: la desesperación existencial y su comprensión crítica y racional.
En definitiva, el libro poético de Antonia está marcado en gran parte, por su drama personal que se plasma a través de la recurrencia de una serie de motivos temáticos: la negación del amor, de la maternidad, el fantasma del "marido-hijo", la resurrección vital del hermano de Cervi (Anunzio Cervi), transferido en un niño, curación de la "herida" interna, clausura de la desunión, etc.
En otro bloque, está también el tema de la muerte como una premonición velada donde subyace quizás un reclamo, pero no sería lícito hablar como sostiene una parte de la crítica, de poemas donde se advierte "una conversación incesante con la muerte" o "de un cortejo fúnebre" lleno de oscuras imágenes que anticipan un hecho ya proyectado y premeditado por parte de la autora. La muerte está presente a veces en el exterior, en lo que la rodea, o a veces en su propia frustración vital, pero asumir la convicción de una trayectoria programada y encaminada al cumplimiento de ese fin, sería equivocado y querer agotar el significado del texto, que tiene una pluridimensionalidad, en una sola dirección.
La naturaleza también alienta su poesía en una simbiosis con su propia identidad en que los elementos se transfiguran en ella o ella se proyecta en este espacio escénico simbólico y mudable según su estado anímico (o se tiñe de tintes sombríos que denotan el vacío o se despliega en una explosión gozosa de flores y esplendor de luz en menos ocasiones). A veces se da la plasticidad descriptiva de una naturaleza vista formalmente pero que es siempre medio de otra realidad que la trasciende, sobre todo cuando describe sus montañas amadas.
La elección temática se engarza en constelaciones simbólicas operativas dentro de las secuencias textuales con un valor constante. Entre las más recurrentes están todas las referidas al "agua" como elemento nuclear que adquiere connotaciones diferentes según su forma y estado. El polimorfismo es amplio: lluvia, fuente, lágrimas, lago, mar, agua corriente y dulce, etc. que cierran su circularidad significativa en la antítesis de dos términos claves: el lago como símbolo de agua estancada y encenagada, equivalente a colapso de la vida; muerte vital, hastío, en definitiva también, de finitud contrastado con el "mar", símbolo del absoluto, del infinito, del sentido de la vida y de la proyección creciente del ser humano; de la amplitud de horizontes. El "mar" es siempre un símbolo positivo aunque a veces pueda percibirse en su valencia totalizadora negativa y rotunda, en ese caso se matiza con la adyacencia "nero" que asume toda la esencialidad terrible.
Otra constelación está formada por la luz, luz diversificada en un sentido místico y metafísico en su forma "lume", o bien en su cara bipolar de "sol": inmanencia de la vida que urge, plenitud vital, fuerza creativa y sentido de la existencia. Hay "muchos soles" en la poesía de Pozzi aunque algunos aparecen en su vertiente de ocaso y negación. En el polo "nocturno" están "las estrellas", con el valor de indicios de reencuentro existencial con el sujeto, esperanza oculta de una realidad posiblemente trascendente.
Y por último, otra cadena isotópica destacable es la del sonido, desenvuelta en una multiplicidad de cadencias, elementos, objetos tanto de la naturaleza como de factura humana: grillos, pájaros, voces, violines, campanas, etc. El término "campana" está configurado con un valor semántico especial recurrente: cada vez que aparecen las campanas son un reclamo a la vida, es el eco de la conciencia que te recuerda que estás en la dimensión física de la vida.
El sonido tiene por tanto un valor especial en la poesía pozziana y es quizás la sensación más manifiesta, revela una doble función semántica: de resucitar a la vida, de enganchar con el tono vital cuando está presente, o de privación, de crisis, vacío existencial, pregunta retórica vehemente humana y exiliada del ámbito trascendente cuando surge el silencio.
En el plano formal, la musicalidad fluye con naturalidad conseguida por la fusión de endecasílabos con versos de inusual brevedad: formas cerradas y verso libre que no delatan en apariencia una atadura programática. A veces en un mismo poema con versos de andadura iterativa construidos sobre secuencias largas, se efectúan quiebras a través de encabalgamientos de influencia danunciana que reequilibran y redimensionan la medida del canto, a los que se añaden semantemas y agregados simbólicos que sugieren un ambiente simbolista y post-simbolista.
El esquema estrófico también redunda en la musicalidad procediendo a través de la unión de imágenes correlativas que se apoyan en la parataxis con un efecto de "encantamiento melódico". Los críticos hablaron en su momento de "Alma musical". Además, el uso de los guiones acentúa el ritmo de las composiciones con vibrantes pausas expresionistas.
Hay también una gama cromática particular en su poesía que se resuelve a través de toques impresionistas y una amplitud de repertorio. Las valencias tonales se materializan con tintes compactos o a través de matices propios de los pintores de lagos, para terminar con una versión expresionista y surrealista en el tratamiento del color que evoca y amalgama influencias de la más diversa extracción y revelan ya la madurez en la conciencia artística de la autora. Este cromatismo se plasma en la naturaleza: en los paisajes y las montañas sobre todo y en un microcosmos botánico de elección propia y asume muchas veces una connotación simbólica cargada de sugestiones varias, por encima del valor plástico-descriptivo. Luigi Scorano en su estudio ya citado sobre la obra de Antonia Pozzi Carte Inquiete subraya la presencia de cuatro colores recurrentes que articulan la poesía de la autora: negro, oro, rojo y blanco; siendo la antítesis"negro-blanco" la más cargada de valencias simbólicas. El negro condensaría la privación, lo terrible, el dolor, etc. Y el "blanco" se tiñe a veces de positividad, de tintes místicos, de influencias pascolianas, de referencia metapoética en relación con la génesis de la poesía, con la palabra, con la literatura en general..."poesia (como) ponte...bianco" (Lieve offerta, p. 203), pero también "blanco" de ausencia y falta de tono vital y energía. El antagonismo de todo el cromatismo posible estaría en la privación del sentido de la vista, la imposibilidad de ver con una implicación semántica negativa en la mayoría de los casos: nihilista, de escepticismo o coagulación de la experiencia; equiparable al silencio con respecto al sonido (de estos dos campos semánticos estructurales).
Hay por otra parte analogías y asociaciones semánticas surrealistas en su poesía que evocan ese ambiente caótico, inquietante de la ciudad en sus espacios más marginales y decadentes, como la periferia. Y que revierten en una atmósfera premonitoria y angustiosa de la inminente catástrofe del siglo.
"Forse l'età delle parole è finita per sempre", escribirá a Vittorio Sereni en una de sus cartas en la inminencia del silencio definitivo, como si la palabra se desposeyera de su valor ante la violencia histórica y ante la fragilidad personal, pero verdaderamente estas palabras de Pozzi están llenas de Infinitud, de vigencia y vida en una síntesis única de originalidad y sensibilidad plástica y humana.
Otra obrita importante de Pozzi es La vita sognata que ella misma tituló así y recogió en sus Quaderni. Se trata de una selección de poemas que recogen toda la historia de amor vivida en relación con Antonio Maria Cervi, cifrada en una parábola de una experiencia de amor sufrida hasta la extenuación, pero que no se agota en esta centralidad temática. Los poemas están dispuestos siguiendo un orden no cronológico sino temático (ningún poema de esta antología está fechado y sólo hay un dato referencial simbólico: la muerte de Annunzio, el hermano de Antonio Maria Cervi revivido en su primera escritura), extremadamente significativo: la primera es la síntesis de la parábola del sueño de amor, desde su nacimiento hasta su ruptura; otros evocan los momentos más íntimos vividos en una continua alternancia de dualidades antitéticas: alegría-dolor, esperanza-desconsuelo, deseo-renuncia, paz-angustia, vida-muerte, siendo el último pensamiento referido a la vida.
Es además curioso apreciar que en este pequeño "canzoniere" estén ausentes los dos campos semánticos referidos a la privación de los dos sentidos: la vista y el oído, ya que la palabra está sentida como activadora de la esperanza y abierta a un proyecto futuro.
Todas estas composiciones emanan, producto de la conmoción que produjo en ella la renuncia y ruptura involuntaria impuesta por su padre, por lo tanto son todas de 1933. No se publicaron hasta 1986, con el título de La vita sognata ed altre poesie inedite a cargo de la editorial Scheiwiller, con la supervisión de Alessandra Cenni y Onorina Dino. Después se incluyeron dentro del cancionero único Parole en la edición de 1989 y 2001 tutelada por Alessandra Cenni, su gran biógrafa. 

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