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lunes, 1 de octubre de 2012

Chi lavora e perduto - Tinto Brass (1963)


TITULO ORIGINAL Chi lavora è perduto
AÑO 1963
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 78 min
DIRECCION Tinto Brass
ARGUMENTO Tinto Brass
GUION Tinto Brass, Franco Arcalli, Giancarlo Fusco.
MONTAJE Tinto Brass
FOTOGRAFIA Bruno Barcarol
MUSICA Piero Piccioni
ESCENOGRAFIA Raul Schultz
VESTUARIO Danilo Donati
REPARTO Sedy Rebbot, Pascale Audret, Franco Arcalli, Tino Buazzelli, Nando Angelini, Piero Vida.
GENERO Drama / Psicológico

SINOPSIS 1° film di Giovanni Brass, in arte Tinto (1933). Bonifacio, giovane veneziano disoccupato e anarchico, fa una serie di strani incontri. Sullo sfondo di una Venezia inedita, è un film impregnato di veneta bizzarria libertaria che, tra scompensi e cadute di gusto, ha scatto, estro e qualche pagina di forza sconsolata, a mezza strada tra Rossellini e Godard. La censura impose tagli, modifiche e il cambio del titolo con In capo al mondo. (Il Morandini)


La trama
Le fantasie di un ragazzo alla ricerca di un lavoro.

Il ventisettenne Bonifacio senza un lavoro si trova verso mezzogiorno a girare per le strade assolate di Venezia in un giorno d'estate. Il caldo, la necessità di ingannare il tempo e quella di prendere una decisione importante come quello del lavoro lo portano a elaborare con la mente una quantità di ricordi e di pensieri. Rivivono così alcune situazioni familiari e le varie fasi della sua educazione. Nel suo girovagare incontra Claudio e ritorna col pensiero a un altro suo amico che non è più uscito dal manicomio...
Il primo film di Tinto Brass ha una notevole forza libertaria. La censura impose dei tagli e un nuovo titolo: "In capo al mondo".

Voto al film:
Il primo film di Tinto Brass anticipa temi, luoghi e ossessioni del suo cinema futuro anni settanta e ottanta. Attraverso la figura del protagonista Bonifacio, un giovane disoccupato allergico al lavoro e al conformismo, Brass esplicita tutta la sua indole anarchica accompagnata da causticità, ironia e trasgressione. Il protagonista vagabonda per Venezia alla ricerca di un lavoro ma preferisce sognare, fantasticare e soprattutto ricordare gli episodi più salienti della sua vita con una forte dose di sarcasmo (l’infanzia, i genitori, il militare, la ex ragazza etc.), poi fa visita a due vecchi amici finiti male ed ogni volta riaffiora il suo umorismo corrosivo e il suo disadattamento sociale. Vedendo questa simpatica e per l’epoca davvero irregolare opera prima ci si rende conto che il percorso cinematografico del regista di Torcello era segnato dal destino, infatti sono presenti temi quali “l’elogio della follia intesa come poesia del vivere” e generi come quello erotico che dopo la geniale doppia parentesi de LA MIA SIGNORA  e IL DISCO VOLANTE (entrambi interpretati da Alberto Sordi e prodotti da Dino De Laurentiis) faranno parte attiva della sua filmografia in titoli fortunati e riusciti come DROPOUT e LA CHIAVE. Il protagonista è il godardiano Sady Rebbot e anche nello stile ci sono riverberi del maestro della “nouvelle vague”, nella parte dell’amico Kim c’è Franco “Kim” Arcalli, rivoluzionario montatore e prossimo sceneggiatore di Bernardo Bertolucci  in ULTIMO TANGO A PARIGI e NOVECENTO.  In CHI LAVORA E’ PERDUTO - manomesso e ribattezzato dalla censura con il titolo meno “scandaloso” IN CAPO AL MONDO - Brass oltre a firmare montaggio, regia e sceneggiatura (sarà una consuetudine) doppia con accento veneziano il bravo attore di teatro Tino Buazzelli.
http://www.film.tv.it/film/20443/chi-lavora-e-perduto/
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Bonifacio B., un giovanotto che corre sempre, alla ricerca del suo posto nella società, ha ricevuto un’edt~cazione clericale e reazionaria, ha visto disgregarsi le amicizie e le solidarietà giovanili, ricorda ancora i colori dei funerali di un « compagno », ha fatto abortire la sua ragazza, e adesso è di fronte alla necessità di inserirsi nel « sistema ». Film di un esordiente assai scaltro, già assiduo frequentatore di cineteche, In capo al mondo (secondo il primitivo titolo, di cui gli fu imposta, per motivi ignoti, la sostituzione in sede di censura) poté apparire, esteriormente, un tentativo italiano di fare dei cinema come i giovani « arrabbiati »inglesi o americani, salvo vedervi addirittura, e insieme, i segni della tentazione anarchica e della riflessione imprudente.
(Gian Piero dell'Acqua)

Non potevo non cercare di veder subito il film di Tinto Brass In capo al mondo ( Chi lavora è perduto), né posso trattenermi dal parlarvene immediatamente (scrivo in data 7 ottobre), ossia mentre accese polemiche divampano sui giornali e ignoriamo se il Brass verrà appeso o no per la gola a un gancio di confine tra l'odierna Italia del monocolore e quella, imminente, del Centro-Sinistra Fanfani II o Moro I che sia. In questo clima di interregno, di reggenza, è possibile, tendendo l'orecchio di notte, udire il brusio della mola che gira affilando ogni sorta di lame, e i clic dei grilletti che sì alzano (forza con l'immaginazione!) come baiadere dal guanciale, sazi cioè di languori estivi.
(Giuseppe Marotta)

"Si è presentato a Venezia (...) con un film fuori de comune. Egli conosce bene la sintassi cinematografica, ma ad un certo punto la mette da parte e decide di esprimersi il più liberamente possibile (...) preferisce ricorrere all'ispirazione del momento piuttosto che a elaborate costruzioni stilistiche. (...) Il film divaga tra realtà e fantasia (e) cala di tono sul finale, proprio perché il regista s'è lasciato andare a delle distrazioni puramente superflue."
(E. Marussig, 'L'Espresso', 8 settembre 1963)
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C’è un Tinto Brass dimenticato o sconosciuto, che merita di essere riscoperto. È il giovane regista degli anni sessanta e settanta, che, dopo aver lavorato con Roberto Rossellini e Joris Ivens, inizia a girare film liberi e belli, stilisticamente figli della nouvelle vague francese. Un esempio è il suo esordio nel lungometraggio di finzione Chi lavora è perduto, edito adesso in dvd dalla Raro Video. Il film è un lungo monologo interiore del suo protagonista, Bonifacio, un giovane disoccupato, allergico al lavoro e alle convenzioni sociali, che gira per Venezia, ricordando alcuni momenti della sua vita (l’infanzia, i genitori, il militare e la ex fidanzata). Opera sperimentale e irregolare, Chi lavora è perduto è un film che lascia il segno ancora oggi: Brass si fa beffe di tutto e di tutti, rifiuta qualunque ideologia, celebra una visione puramente goliardica dell’esistenza e sceglie una narrazione fatta di flashback rapidi e folgoranti che assecondano perfettamente lo spirito anarchico del protagonista. Cast originale con Sady Rebbot (attore del godardiano Questa è la mia vita), Pascale Audret, Franco (Kim) Arcalli e Tino Buazzelli. Curatissima la fotografia in bianco e nero (ma il colore compare nella sequenza del funerale comunista). Bella la colonna sonora di Piero Piccioni, che si mescola ad alcuni successi pop anni ’60 (Rita Pavone su tutti). Il film ebbe tantissimi problemi con la censura, ma Brass non tagliò nemmeno una scena, limitandosi solo a cambiare il titolo, da Chi lavora è perduto a In capo al mondo. Anche la critica del tempo, però, rimase non poco scandalizzata e disorientata. Molto ben fatto il dvd con un ricco booklet curato da Bruno Di Martino e un’intervista, tra gli extra, a Salviano Miceli. Speriamo che questo recupero sia l’inzio di una riscoperta del “primo” Brass, praticamente inedito nel mercato home-video. I film che meriterebbero una edizione in dvd sono tanti: basti citare Il disco volante, con Alberto Sordi e Silvana Mangano, L’urlo (bloccato dalla censura per sei anni, dal 1968 al 1974), con un giovanissimo Gigi Proietti, e ancora Dropout e La vacanza, con la coppia Franco Nero-Vanessa Redgrave. Coraggio, il popolo dei cinefili questi film (puntualmente ignorati dalla tv) li sta aspettando e non vede l’ora di (ri)vederli. 
http://schermiblog.blogspot.com.ar/2011/11/revisioni-chi-lavora-e-perduto-di-tinto.html

Il primo Tinto Brass non è indicativo dei futuri sviluppi della sua opera, ma fa presagire un talento indiscutibile. Fin dal primo film, un lavoro di montaggio come Ça ira – Il fiume della rivolta (1964), notiamo un regista in contrasto con i movimenti di sinistra e le idee dominanti. Il film esce dopo In capo al mondo - Chi lavora è perduto (1963) per problemi di censura e distribuzione, ma è il primo lavoro di Brass. Il tema polemico è forte: le rivoluzioni sono un bagno di sangue, mentre le promesse di cambiamenti sociali spesso restano incompiute. In capo al mondo - Chi lavora è perduto (1963) è il secondo film realizzato da Tinto Brass, ma il primo a uscire nelle sale e in ogni caso il primo lavoro di pura fiction, vagamente autobiografico. La pellicola entusiasma persino un critico dal palato fine come Paolo Mereghetti, che concede due stelle e mezzo e giudica il lavoro una pernacchia anarcoide (in anticipo sui tempi) all’Italia del boom, funerale dell’ora degli ideali (ricordati dalle immagini di Paisà di Rossellini), celebrazione di una Venezia popolare e di un sano e carnale edonismo. Il film scandalizza censura e critica del tempo, al punto che Brass si vede costretto a cambiare il titolo In capo al mondo con Chi lavora è perduto, ma non taglia neppure una scena e lo fa uscire nelle sale. Secondo Mereghetti è un lavoro che risente debiti di ispirazione con la Nouvelle Vague, sia per la libertà narrativa che per il montaggio frammentato e ricco di soluzioni bizzarre. Il Morandini dice che la censura impone tagli e modifiche, ma in realtà Brass si limita a cambiare titolo, lasciando tutto come prima. Vero che il film è impregnato di bizzarria libertaria, che ricorda Godard e Rossellini.
Le accuse di oscenità sono dure, ma ingiustificate: “Il film, oltre a essere offensivo, del buon costume sessuale, è altamente offensivo di quello morale e sociale, è distruttore di tutti i valori spirituali, è scurrile nel linguaggio”. Giuseppe Marotta nel volume Di riffe o di raffe (Bompiani, 1965) difende In capo al mondo e afferma che nel film non c’è nulla proprio nulla di lesivo. È un’opera singolare, fresca, arguta, nella quale serpeggia, tutt’al più, l’inquietudine, l’insoddisfazione, l’ira innocua, l’ira paziente che oggi spesso accomuna giovani e vecchi. Il protagonista non è né un ribelle né un debosciato, ma soltanto un disorientato, un impaurito che si dà animo deridendo le cose e i fatti.
Il protagonista non è un intellettuale, ma un personaggio che pensa, dotato di senso dell’umorismo e di una forte carica ironica, in guerra contro tutti i principi stabiliti. Ricorda molto Tinto Brass, anche se il regista non ammette una sincera vena autobiografica. In capo al mondo - Chi lavora è perduto ha una buona resa commerciale in Italia, recuperando in poche settimane i quarantacinque milioni di lire spesi per la produzione. Nel film si nota l’amore di Brass per i personaggi marginali, che sarà in primo piano anche nei lavori successivi. Brass detesta le persone potenti che condizionano la vita altrui, forse perché ha dovuto fare i conti con un padre autoritario, al quale era insofferente. Brass detesta le istituzioni, per questo nella sua opera si fa beffe di Chiesa, Stato e gerarchie di ogni tipo.
Chi lavora è perduto è un apologo anarchico sul disagio giovanile. Parte della critica parla di anarchismo umoristico, per classificare la storia di un giovane insofferente verso potere e istituzioni che non riesce a integrarsi nella società. Un vero e proprio sberleffo all’epoca dei miti e degli ideali, ma pure all’Italia del boom, realizzato da un edonista con una visione goliardica della vita. Tinto Brass mette su pellicola le influenze francesi recepite durante l’esperienza parigina, usa il dialetto, esprime la storia secondo un flusso di pensieri non facile da seguire, anche per colpa di un montaggio frammentato ricco di soluzioni bizzarre. Il film vede la collaborazione in qualità di sceneggiatori di Franco Arcalli e Giancarlo Fusco, ma pure dell’ottimo musicista Piero Piccioni. Tra gli interpreti segnaliamo Sady Rebbot, Pascale Audret e Tino Buazzelli. L’ambientazione veneziana inaugura un legame tra Brass e la sua terra che non verrà mai meno e che ancora oggi risulta sempre più solido. Il protagonista (Rebbot) non ha voglia di impiegarsi in un lavoro che non ama e si lascia andare a un flusso di pensieri che ripercorrono episodi della sua vita. Una serie di flashback montati in modo rapido e frammentario raccontano la relazione con una donna (Audret), interrotta dopo un aborto a Ginevra, ma anche l’impegno politico di un amico (Arcalli) che viene rinchiuso in manicomio e di un altro (Buazzelli) che finisce in sanatorio. Il messaggio apolitico è chiaro: non è più tempo per le ideologie, così come non è il caso di illudersi per un finto boom.

Tinto Brass
Alcuni critici hanno cercato di ricondurre al discorso erotico anche la prima parte della produzione cinematografica di Tinto Brass, ma questa impostazione teorica non pare condivisibile. A nostro giudizio la carriera del regista  presenta due momenti abbastanza distinti. Salon Kitty (1975) fa da spartiacque tra il Brass sperimentale che ricerca una pura espressione formale e il regista che mette il sesso al centro della comunicazione. Questo non vuol dire che anche nel primo Brass non siano riscontrabili elementi erotici, spesso preponderanti e in bella evidenza, altre volte relegati in brevi sequenze. L’interesse per l’erotismo in Brass è sempre stato forte, come momento di trasgressione e libertà, ma il suo approccio alla materia si è andato modificando nel corso degli anni. Chi lavora è perduto presenta riferimenti erotici nei dialoghi, nei sogni, in alcune scene d’amore, ma anche nei momenti surreali con il protagonista che immagina di trasformare la casa paterna in un bordello. Non mancano accenni di voyeurismo, che Brass approfondirà nella fase matura, come ragazze in biancheria intima, seni nudi, rapporti sulla spiaggia, su un campanile e in casa. Ricordiamo anche la donna spiata con un cannocchiale mentre si pettina.

Il mio libro su Tinto Brass
I momenti più interessanti del film sono i flashback del protagonista, l’uso del colore in poche sequenze per sottolineare un funerale comunista e il rosso delle bandiere, il rapporto uomo - donna visto con realismo e spirito trasgressivo, le divagazioni oniriche e un suggestivo bianco e nero che valorizza la fotografia veneziana. Il protagonista è un uomo che vuole sfuggire all’omologazione, non vuole integrarsi e diventare come tutti gli altri, odia le convenzioni borghesi, anche se comprende che “il mondo non è dei mona ma di chi sa adattarsi”. Ottima la colonna sonora di Piero Piccioni che presenta brani di Rita Pavone e altri pezzi  alla moda. Molte le frasi che si ricordano: “L’amore viene e va, come i vaporetti!”, “Ci vogliono fatti così, in modo tale che tu non sei tu e io non sono io”, “La fine di un orrore è meglio che un orrore senza fine” (riferita a un amore concluso). Geniale il finale con un Gesù onirico che parla veneziano e la scritta Il lavoro rende liberi per citare i campi di concentramento nazisti. Interessanti gli elementi erotici, le scene riprese sul mare e molti elementi presenti in nuce che si svilupperanno nella successiva  filmografia di Brass. Possiamo dire che Chi lavora è perduto rappresenta il laboratorio sperimentale dal quale il regista attingerà materiale per i lavori futuri.
http://cinetecadicaino.blogspot.com.ar/2011/09/chi-lavora-e-perduto-1963.html

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